La teologia del corpo di S.Giovanni Paolo II
Sintesi di un articolo di Davide Vairani da “ La Croce” del 22.02.2017
Poco dopo la morte di Michelangelo, Paolo Veronese fu chiamato davanti all’Inquisizione, con l’accusa di aver dipinto figure inappropriate intorno all’Ultima Cena. Il pittore rispose che anche nella Cappella Sistina i corpi erano rappresentati nudi, con poca riverenza. Fu proprio l’inquisitore che prese la difesa di Michelangelo con una risposta diventata famosa: ‘Non sai che in queste figure non vi è cosa se non di spirito?’ (Benedetto XVI, “Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dall’Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia”, 13 maggio 2011).
Da moderni, facciamo fatica a capire la piena portata di queste parole. È innegabile che un certo filone di pensiero e di cultura (anche – dobbiamo riconoscerlo – diffusosi in maniera più o meno striscianti in certi ambienti della Chiesa cattolica) ci condiziona anche inconsciamente nell’immaginare il corpo come materia inerte e pesante, opposta alla conoscenza e alla libertà proprie dello spirito. Ma i corpi dipinti da Michelangelo nella Cappella Sistina sono abitati da luce, vita e splendore. Michelangelo voleva mostrare che i nostri corpi nascondono un mistero, nei quali e dentro i quali lo spirito si manifesta e opera. Siamo chiamati ad essere corpi spirituali, come dice san Paolo (cfr 1Cor 15,44). Eppure, se ci pensiamo, non possiamo nasconderci quanto una visione antropologica duale e dualista ha pervaso la storia della Chiesa. Anima contro corpo. Corpo contro anima. Corpo come ricettacolo di tutti i vizi e zavorra del peccato che non eleva lo spirito, l’anima.
L’incipit di Benedetto XVI con cui abbiamo aperto questa riflessione, così prosegue: “Ci possiamo allora chiedere: può questo destino del corpo illuminare le tappe del suo cammino? Se il nostro corpo è chiamato ad essere spirituale, non dovrà essere la sua storia quella dell’alleanza tra corpo e spirito? Infatti, lungi dall’opporsi allo spirito, il corpo è il luogo dove lo spirito può abitare. Alla luce di questo è possibile capire che i nostri corpi non sono materia inerte, pesante, ma parlano, se sappiamo ascolta- re, il linguaggio dell’amore vero. Giovanni Paolo II ci ha affidato, in particolare, per lo studio, la ricerca e la discussione, le sue ‘Catechesi sull’amore umano’, che contengono una profonda riflessione sul corpo umano. Coniugare la teologia del corpo con quella dell’amore per trovare l’unità del cammino dell’uomo: ecco il tema che vorrei indicarvi come orizzonte per il vostro lavoro”. È il tema al quale siamo ciascuno di noi chiamati a lavorare. Le “Catechesi sull’amore umano” ( più conosciute con l’espressione “teologia del corpo”) comprendono un arco temporale piuttosto lungo (dal 5 novembre del 1979 al 28 novembre del 1984, ma con numerose pause soprattutto nell’anno santo della redenzione e nell’anno dell’attentato contro il Papa), nelle quali Giovanni Paolo II scandalizzò non poco la Chiesa a quel tempo. E – penso – scandalizzino ancora molti cattolici oggi, al punto che le gerarchie se ne sono un po’ dimenticate, usando un eufemismo.
Il corpo ci parla di un’origine che noi non abbiamo conferito a noi stessi. “Mi hai tessuto nel seno di mia madre”, dice il Salmista al Signore (Sal 139,13). Possiamo affermare che il corpo, nel rivelarci l’Origine, porta in sé un significato filiale, perché ci ricorda la nostra generazione, che attinge, tramite i nostri genitori che ci hanno trasmesso la vita, a Dio Creatore. Solo quando riconosce l’amore originario che gli ha dato la vita, l’uomo può accettare se stesso, può riconciliarsi con la natura e con il mondo. Alla creazione di Adamo segue quella di Eva. La carne, ricevuta da Dio, è chiamata a rendere possibile l’unione di amore tra l’uomo e la donna e trasmettere la vita. I corpi di Adamo ed Eva appaiono, prima della Caduta, in perfetta armonia. “C’è in essi – prosegue Benedetto XV – un linguaggio che non hanno creato, un eros radicato nella loro natura, che li invita a riceversi mutuamente dal Creatore, per potersi così donare. Comprendiamo allora che, nell’amore, l’uomo è ‘ricreato’. Incipit vita nova, diceva Dante (Vita Nuova I,1), la vita della nuova unità dei due in una carne. Il vero fascino della sessualità nasce dalla grandezza di questo orizzonte che schiude: la bellezza integrale, l’universo dell’altra persona e del ‘noi’ che nasce nell’unione, la promessa di comunione che vi si nasconde, la fecondità nuova, il cammino che l’amore apre verso Dio, fonte dell’amore. L’unione in una sola carne si fa allora unione di tutta la vita, finché uomo e donna diventano anche un solo spirito. Si apre così un cammino in cui il corpo ci insegna il valore del tempo, della lenta maturazione nell’amore. In questa luce, la virtù della castità riceve nuovo senso. Non è un ‘no’ ai piaceri e alla gioia della vita, ma il grande ‘si’ all’amore come comunicazione profonda tra le persone, che richiede il tempo e il rispetto, come cammino insieme verso la pienezza e come amore che diventa capace di generare vita e di accogliere generosamente la vita nuova che nasce”. Giovanni Paolo II nelle sue catechesi, parte dalla fede della Chiesa e più in concreto dalla luce del mistero di Cristo che è la chiave di comprensione del mistero dell’uomo. E da Cristo che parte ogni autentica antropologia cristiana che per essere cristica non è mai avulsa dell’esperienza integrale di ciò che è veramente umano. Così si scopre la verità sull’uomo nella sua interezza. Si parte dunque dall’atto di fede che accetta come vero ciò che Dio ci ha rivelato in Cristo e questo lo si fa in un duplice momento. In un primo momento si parte dalle parole di Cristo e poi da queste parole si risale fino alla sorgente che ci viene rivelata anche nell’Antico Testamento. In una seconda fase, si cerca di capire con la ragione il significato di una rivelazione, evitando una duplice tentazione, quella della riduzione empirista (positivista) e quella del razionalismo (idealista). Il metodo fa per tanto appello sia alla ragione che alla fede e all’esperienza autentica, a ciò che è veramente umano, riuscendo così ad integrare in modo circolare fede e ragione, teologia e filosofia, ma anche eventuali aperture a tutto il vasto campo del sapere umano che possa fornire qualche conoscenza ulteriore sull’uomo. Bisogna aggiungere una ultima nota al metodo usato da Giovanni Paolo II nella sua costruzione della teologia del corpo: il riferimento all’etica.
La teologia del corpo non è moralistica, ma non lascia fuori gli aspetti etici come si vede chiaramente dal sesto e ultimo ciclo dove si trattano temi che riguardano amore umano e fecondità. Non è una teologia morale, ma la include, almeno nei suoi fondamenti.
È certo che il corpo contiene anche un linguaggio negativo: ci parla di oppressione dell’altro, del desiderio di possedere e sfruttare. Ci parla di ferite derivanti dal peccato originale che ci portiamo dentro come dentro il nostro dna, ma anche fattuali, derivanti sempre da una modalità distorta di vivere corpo e anima: non c’è mai stata nella storia dell’umanità una generazione come quella moderna che fa un uso enorme di ansiolitici, abbruttita da depressione, capace di commettere delitti di una mostruosità mai vista al punto da lasciarci ogni giorno senza parole. Ci parla del limite dell’umano, ci parla di quanto l’uomo possa essere mostruosamente capace di violentare se stesso e gli altri da ogni punto di vista: sessuale, relazionale, psichico e morale.
Tuttavia, sappiamo che questo linguaggio non appartiene al disegno originario di Dio, ma è frutto del peccato. Quando lo si stacca dal suo senso filiale, dalla sua connessione con il Creatore, il corpo si ribella contro l’uomo, perde la sua capacità di far trasparire la comunione e diventa terreno di appropriazione dell’altro. “Non è forse questo il dramma della sessualità, che oggi rimane rinchiusa nel cerchio ristretto del proprio corpo e nell’emotività, ma che in realtà può compiersi solo nella chiamata a qualcosa di più grande.. Dio offre all’uomo anche un cammino di redenzione del corpo, il cui linguaggio viene preservato nella famiglia. Se dopo la Caduta Eva riceve questo nome, Madre dei viventi, ciò testimonia che la forza del peccato non riesce a cancellare il linguaggio originario del corpo, la benedizione di vita che Dio continua a offrire quando uomo e donna si uniscono in una sola carne. La famiglia, ecco il luogo dove la teologia del corpo e la teologia dell’amore si intrecciano. Qui si impara la bontà del corpo, la sua testimonianza di un’origine buona, nell’esperienza di amore che riceviamo dai genitori. Qui si vive il dono di sé in una sola carne, nella carità coniugale che congiunge gli sposi. Qui si sperimenta la fecondità dell’amore, e la vita s’intreccia a quella di altre generazioni. È nella famiglia che l’uomo scopre la sua relazionalità, non come individuo autonomo che si autorealizza, ma come figlio, sposo, genitore, la cui identità si fonda nell’essere chiamato all’amore, a riceversi da altri e a donarsi ad altri. Questo cammino dalla creazione trova la sua pienezza con l’Incarnazione, con la venuta di Cristo. Dio ha assunto il corpo, si è rivelato in esso. Il movimento del corpo verso l’alto viene qui integrato in un altro movimento più originario, il movimento umile di Dio che si abbassa verso il corpo, per poi elevarlo verso di sé. Come Figlio, ha ricevuto il corpo filiale nella gratitudine e nell’ascolto del Padre e ha donato questo corpo per noi, per generare così il corpo nuovo della Chiesa. La liturgia dell’Ascensione canta questa storia della carne, peccatrice in Adamo, assunta e redenta da Cristo. È una carne che diventa sempre più piena di luce e di Spirito, piena di Dio. Appare così la profondità della teologia del corpo. Questa, quando viene letta nell’insieme della tradizione, evita il rischio di superficialità e consente di cogliere la grandezza della vocazione all’amore, che è una chiamata alla comunione delle persone nella duplice forma di vita della verginità e del matrimonio”.
La “teologia del corpo” di Giovanni Paolo II ci aiuta ad assumere un sano realismo, anzitutto con noi stessi: i nostri corpi nascondono un mistero, nei quali e dentro i quali lo spirito si manifesta e opera, siamo chiamati ad essere corpi spirituali. Ma al tempo stesso ci aiuta a prendere coscienza di quanto il nostro corpo nella sua totalità dei fattori di cui è costituito non sia perfetto. E che il compito che a ciascuno di noi è chiesto per essere davvero noi stessi è quello di cercare e vedere il mistero che alberga in noi. È però una Grazia, un dono, non solo poterlo comprendere, ma sapere camminare nella luce il meno indegnamente possibile.